Omelia nel 40° di ordinazione sacerdotale 2021

21/06/2021

Omelia nel 40° di ordinazione sacerdotale (21 giugno 2021)


“Padre Santo, che mi hai chiamato senza alcun merito al servizio della tua Chiesa, donami di essere annunciatore mite e coraggioso del vangelo e fedele dispensatore dei tuoi misteri.”

Un anniversario celebrato nel pieno della vita attiva, non è ancora l’occasione per tirare le somme.

Ma certamente 40 anni sono l’occasione per fare il punto. Anche per, eventualmente, rimediare.

Non è un merito, ma fino a qui intanto sono arrivato e di questo ringrazio il Signore. Sono davvero stato annunciatore mite e coraggioso del vangelo?

Quando sono stato ordinato, 40 anni fa, allora come oggi c’erano problemi, dubbi, difficoltà nella Chiesa e nel mondo.

Poche settimane prima della mia ordinazione, papa Giovanni Paolo II si era salvato per miracolo da un attentato.

Eravamo nel pieno degli anni di piombo. I terroristi ammazzavano qualcuno quasi ogni mese.

Avevamo ricordato da pochi giorni il quinto anniversario del terremoto del Friuli. Le macerie, anche se in via di ristrutturazione veloce, c’erano ancora. E quelle visibili non erano le più gravi.

Pochi giorni prima, una vicenda drammatica per un bambino di Vermicino e la sua famiglia era rimbalzata mediaticamente in tutte le case. Dopo pochi giorni, a Medjugorje alcuni ragazzi e ragazze iniziavano a vedere la Madonna.

Insomma erano mesi intensi, che non consentivano facili entusiasmi, eppure devo dire che ero contento e pronto alla lotta. Un giovane ragazzo mi fermò il giorno della mia ordinazione e mi predisse che anch’io, dopo pochi anni, avrei abbandonato la scelta di diventare prete (come non pochi in quegli anni) e mi sarei sposato…

Un tempo così.

La scelta del mio motto sacerdotale, che avrei voluto portare nello stemma da vescovo, era: “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”; frase che nasce dalla consapevolezza che la mia vita è davvero un dono di Dio.

Sono il settimo figlio. La vita è un dono già di suo, essere il settimo figlio significa che la mia nascita è un vero miracolo, perché solo pochi decenni prima avrei rischiato di morire prima di raggiungere i cinque anni, mentre pochi anni dopo, avrei rischiato proprio di non essere nemmeno concepito o peggio. La forbice o la finestra di quegli anni, invece, mi ha consentito di nascere e di resistere.

Sono nato in una famiglia cristiana. Semplicemente cristiana, non particolarmente devozionale, non c’erano tante preghiere o devozioni. Un rosario qualche sera, e qualche preghiera personale. Centrale era la messa della domenica, dalla quale si ritornava cantando. Anzi, mia mamma cantava i canti della messa mentre preparava il pranzo. Non servivano discorsi sulla gioia e sulla bellezza delle liturgie o della fede.

Sono stato parrocchiano di una parrocchia dedicata alla Madonna delle Grazie a Pordenone. Tenuta dai monaci vallombrosani. Anche in questo caso, una assiduità costante e semplice. Amavo più dare una mano alla sagra, che in sagrestia. Ho fatto il chierichetto, i paramenti erano curati ma non certamente lussuosi.

Sono stato fortunato riguardo all’esperienza comunitaria in Seminario. Eravamo un bel gruppo di amici. Ogni estate si andava a lavorare. Abbiamo contestato il giusto, anche con l’appoggio del vescovo (ma sarebbe faccenda lunga da spiegare), per chiedere un impegno più forte e più incarnato. Per una vitalità della fede cristiana che già allora incontrava grandi difficoltà nell’intercettare le esigenze dei più giovani.

E poi ci sono state le prime esperienze da giovane vicario parrocchiale, l’insegnamento della religione, il servizio in oratorio e nelle associazioni, la vita quotidiana della gente con la quale spezzare il pane della parola e condividere il pane del cielo, alimento vero, di pace e di speranza.

Decisiva l’esperienza ventennale nella Caritas, diocesana prima e nazionale poi.

L’incontro con grandi maestri dello spirito: Sartori, Visentin e poi Nervo e Pasini. Turoldo, Pellegrino, Bello, Martini…

Ho tanti motivi per dire grazie. E ora, dopo essermi guardato indietro, guardo avanti.

Il vangelo che abbiamo ascoltato ieri iniziava con Gesù che improvvisamente ordinava ai suoi discepoli: “Andiamo all’altra riva”. Partirono e subito dopo ci fu la tempesta. Nell’altra riva trovarono un uomo posseduto da molti spiriti immondi e Gesù lo liberava, mandando gli spiriti che lo tenevano prigioniero in una mandria di 2000 porci, mandria che andò distrutta.

I paesani dei guardiani allora si erano recati da Gesù per invitarlo ad andarsene, perché aveva rovinato il loro commercio. Aveva salvato un uomo, ma questo a loro non interessava.

Tante volte noi pensiamo che salvare la vita di un uomo sia sufficiente. Molte preghiere sono rivolte al Signore perché custodisca vita e salute. E facciamo bene, lo vediamo anche in questi mesi di pandemia quanto sia importante la salute di tutti. La mia salute dipende anche dalla responsabilità degli altri. E viceversa. Ma la salute fisica non basta. Il Signore è venuto a salvarci.

Sono stato ordinato nella domenica del Corpus Domini del 1981. La scelta non era voluta, ma fatta per motivi di impegni del vescovo e altro. La ritengo comunque una circostanza straordinaria e non casuale, ma provvidenziale.

L’eucaristia è il cuore della vita cristiana. La vita cristiana non si ferma in chiesa, ma certamente il pane della parola e il pane dell’eucaristia sono centrali nella vita di un cristiano. Le letture che abbiamo ascoltato erano proprio di quella domenica. Le ho volute riprendere oggi. Nella prima si parla dei 40 anni di cammino nel deserto.

L’eucaristia è come l’amore per le coppie sposi. Non si vive di rendita. L’amore occorre rinnovarlo e rinfrescarlo ogni giorno. Non mi stanco nel celebrare, anche dopo le oltre 20000 messe celebrate.

Mi chiedo però quante siano servite per la mia vita spirituale e pastorale, averle celebrate. Se il terreno della mia vita ha dato frutti abbondanti. Insieme alla parola grazie, allora, chiedo perdono e misericordia. Per aver sciupato tanta grazia di Dio.

Oggi ringrazio e chiedo scusa al Signore. E, dopo di Lui, ringrazio tutte le persone che mi hanno voluto bene e che mi hanno aiutato, dai miei genitori fino ad oggi… e anche a tutti questi chiedo la misericordia del perdono per le delusioni o le ferite arrecate e che, temo, arrecherò ancora. Perché, se da preti si poteva fare del bene e del male, da vescovi si può fare tanto del bene ma anche tanto del male.

Nella mia ordinazione diaconale scelsi un brano di Mazzolari: "Ci impegniamo noi e non gli altri…

Ci impegniamo senza pretendere che altri s’impegnino…

Ci impegniamo senza giudicare chi non s’impegna, senza disimpegnarci perché altri non s’impegnano…."

È un impegno che rinnovo. Continuo ad amare la chiesa, ne colgo i limiti ma anche il tanto bene potenziale e in atto. È la più bella vocazione che si possa avere. Per le occasioni di bene che si hanno di ricevere e di dare amore vero e gratuito.