4 novembre 1885 nasce a Forlì in via Achille Cantoni 33
31 ottobre 1896 entra in seminario
1904 a causa del distacco della retina accusa una perdita di due terzi della vista
13 giugno 1908 viene ordinato sacerdote
1910 cappellano ai Cappuccinini dove si dedica all’educazione dei giovani in oratorio
1914 assistente ecclesiastico all’Istituto San Luigi centro educativo per generazioni di forlivesi
5 gennaio 1919 esce il primo numero del settimanale il Momento di cui don Pippo è fondatore e di cui sarà direttore fino al 1952
ottobre 1928 padre spirituale in seminario
26 dicembre 1936 parroco di Santa Lucia
19 marzo 1944 parroco di San Mercuriale
9 novembre 1952 muore improvvisamente lasciando grandissimo cordoglio in città che partecipa in massa al suo funerale l’11 novembre
9 novembre 1957 traslazione della salma nella cappella dei Ferri in San Mercuriale
17 dicembre 1994 intitolazione a don Pippo della piazzetta accanto a San Mercuriale
“Ciò che don Pippo è stato per la città non è stato ancora sufficientemente valutato. Quando qualcuno avrà animo di farlo potrà forse parlare di un'epoca nuova per la storia cristiana di Forlì segnata da un prete che non si è limitato a una testimonianza personale, ma ha creato un ambiente, uno stile, una tradizione”.
Così scriveva il Momento nel 1962 ricordando, a 10 anni dalla sua morte, il suo fondatore e direttore. Parole che si possono sottoscrivere anche oggi, a 60 anni dalla scomparsa di mons. Giuseppe Prati, soprattutto per quanto riguarda la coscienza di quell’ “epoca nuova della storia cristiana di Forlì”. Di essa don Pippo fu mente, anima e protagonista. Sopra tutti.
“Eppure a Forlì vi erano tanti altri degnissimi sacerdoti che hanno lavorato validamente nei vari campi della pastorale diocesana - ricordava nel 1977 mons. Sergio Scaccini, collaboratore di don Pippo a Santa Lucia e depositario delle sue memorie - come mai allora la sua memoria è rimasta più viva nei nostri cuori? Forse perché tutta la sua attività così varia era basata, ecco il suo segreto, su di una solida vita interiore riscaldata da un calore umano straordinario”.
E’ ciò che fu subito chiaro alle persone, di ogni estrazione, idea e colore politico: che don Pippo, sacerdote e parroco, educatore, musicista, giornalista e comunicatore, era un “santo”. Un uomo, un cristiano, un prete che lottò perché ogni aspetto della vita fosse illuminato dalla verità e la proposta cristiana non fosse culturalmente e socialmente irrilevante.
Mons. Adamo Pasini, uno dei degnissimi sacerdoti ricordati da mons. Scaccini, che collaborò spesso con don Pippo e fu suo predecessore a San Mercuriale così lo ricordava nel decennale della morte: “Quando ritornai a Forlì, già sacerdote, trovai questo giovane chierico, già avanzato negli studi, desideroso di partecipare alle battaglie di quei tempi. Poiché ero anch’io di quella tendenza ben presto trovammo motivo di fare lega insieme, di collaborare nella stampa e di partecipare alle battaglie di quel tempo”. Don Francesco Ricci, che era stato discepolo e collaboratore di don Pippo a il Momento, morto nel 1991 chiudendo il secolo di storia cristiana che don Pippo aveva aperto, ricordò in occasione del 25° della morte del suo maestro: “Ad essere un uomo nuovo, diverso (oh come ci teneva alla diversità del cristiano!) don Pippo dedicò il lavoro di tutta la sua vita. Poiché lo fece su se stesso, questo esercizio della conversione permanente divenne educatore, capace cioè di guidare altri nel cammino della costruzione di una nuova umanità. Gli altri, soprattutto i giovani. Con quel suo instancabile desiderio di generare una razza di uomini diversi, di uomini nuovi.”
Riascoltiamo dunque, in questo 60° anniversario della morte don Pippo, la sua testimonianza di sacerdote, di padre e di maestro.
Don Pippo era nato il 4 novembre 1885 a Forlì in via Achille Cantoni 33, quartogenito di Antonio e Gertrude Giunchi, gestori di una modesta bottega di rigattiere e fu battezzato il giorno dopo a San Mercuriale con i nomi di Giuseppe, Antonio, Domenico. Sulla facciata della casa natale una lapide, posta nel 1995, ricorda il luogo in cui “nacque Giuseppe Prati sacerdote e conosciuto col nome di don Pippo. Ha lasciato di sé una testimonianza di umanità e di fede”. L’umanità e la fede che il piccolo Giuseppe imparò in famiglia, ricevendo i sacramenti a San Mercuriale e soprattutto servendo messa nella chiesa del Carmine che fu per lui vera scuola di cultura, di spiritualità e di libertà e dove maturò la sua vocazione: “Il ricordo del Carmine - scriverà don Pippo nel 1947 parlando di coloro che gli furono padri e maestri - è legato per me a quella prima giovinezza in cui si è sviluppata la vocazione sacerdotale e questo costituisce un dovere di riconoscenza che non può essere trascurato. Ai miei tempi dunque tutto il Carmine si raccoglieva attorno alla ieratica figura del padre Ferranti. La chiesa era sempre alimentata dalle funzioni che si facevano solenni. Assidui al servizio erano don Achille Stefani, già domenicano e don Luigi Bissi, allora mansionario della Cattedrale, poi canonico che mi insegnò a servire messa e mi avviò allo studio del latino. Ogni mattina quindi si era lì all’altare e vi si ritornava quando c’erano funzioni nel pomeriggio.”
Così il 31 ottobre 1896 entrò in seminario. Era il tempo dell’ enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII, pubblicata cinque anni prima, che aveva aperto alla questione sociale e aveva innescato una energia di rinnovamento e di impegno dei cristiani in campo educativo, culturale, assistenziale e financo politico. Il 26 marzo 1897 proprio a Forlì nella chiesa della SS. Trinità duemila delegati parteciparono al convegno regionale dell’Opera dei Congressi che in diocesi contava allora 11 comitati parrocchiali. A questi si aggiungevano circoli cattolici, scuole di religione, oratori e laboratori per la gioventù, società di mutuo soccorso, casse rurali, cooperative di consumo, ritrovi sociali, biblioteche circolanti, conferenze e associazioni sportive. Un ambiente di grande effervescenza e rinnovamento per il mondo cattolico che si accompagnava ad un clima di tensione e di scontro, anche fisico, in particolare con i repubblicani e i socialisti nel quale il chierico Giuseppe iniziò la sua formazione al sacerdozio.
Nel 1904, a causa di un distacco della retina, don Pippo subì la perdita dei due terzi della vista, menomazione che indusse i medici a proibirgli di leggere e studiare. Si porterà dietro per tutta la vita questo menomazione, che lo costrinse a portare sempre occhiali con spesse lenti e a leggere avvicinando fino al viso il foglio.
Ordinato sacerdote il 13 giugno 1908, don Pippo fu collaboratore a San Mercuriale fino al 1910 poi nominato cappellano dei Cappuccinini, dove era già fiorente l’oratorio fondato nel 1902 da don Tommaso Morgagni e dove il giovane sacerdote svolse la sua attività. Lasciando i Cappuccinini, ai suoi giovani che gli erano affezionati perché, dicevano “viene sempre in mezzo a noi amato quale secondo padre” indirizzò l’opuscolo Giovinezza cristiana che ebbe grande diffusione ed esaurite le copie disponibili fu anche ricopiato a mano.
Nel 1914 don Pippo divenne cappellano a Schiavonia ed assistente ecclesiastico dell'Istituto San Luigi, che con la sua presenza diventò centro propulsivo del movimento cattolico e dell'educazione di intere generazioni di forlivesi. Nell’attività di educatore, in oratorio, in seminario come assistente della federazione della Gioventù cattolica, in parrocchia mise a frutto tutte le sue capacità, l'oratoria, la passione per il teatro e per la musica. Compose tra l’altro, su testi di mons. Adamo Pasini, la melodia di diversi inni come “La vivida fiamma”, dedicato alla Madonna del Fuoco, Patrona di Forlì, e brani più impegnativi come messe, litanie, mottetti e antifone.
Più volte nei suoi editoriali su il Momento intervenne per comunicare come intendeva l’educazione: “Io mi domando - scriveva nel 1946 - come mai e parlo specialmente di giovani, sono così presi da senso di scontentezza e di sfiducia? Parmi poter dire che per molti una ragione è questa: hanno una piccola visione della vita. Si creano un mondo piccino piccino, fatto solo di sé, i loro affari, il loro avvenire, i loro piaceri, i loro passatempi, la loro salute. Così il cerchio della propria visuale si chiude in un orizzonte egoistico, meschino e non è soddisfatto mai. Date un orizzonte grande alla vita e tutto trova ragione”. E aggiungeva nel 1948, dopo l’invasione della Romania da parte dell’Armata Rossa: “Lo Stato vuole plasmare la coscienza dei suoi cittadini e quindi bisogna nazionalizzare le scuole cattoliche, imporre il libro di Stato, l’educazione di Stato, la formazione interiore di Stato. L’individuo così scompare nella sua libertà e nella sua personalità. La Chiesa che per quanto dipinta sempre asservitrice del pensiero e delle coscienze, ne è invece la più valida difesa e sostenitrice, quando vede in pericolo la libertà di coscienza e la libertà di educare la gioventù secondo sicuri principi morali insorge e protesta”. E inoltre: “C’è ancora tutto da fare ed è non smettere il lavoro di educazione e di formazione delle coscienze ed è non lasciar passare occasione per opere sempre più profonde di bene, specie per la gioventù, e servirsi di tutta la santa libertà che è anche diritto nostro per farsi intender e farsi apprezzare”. La sua fama di educatore aveva varcato i confini della diocesi, veniva chiamato spesso in altre città per predicare e tenere corsi di esercizi spirituali. Sempre nel 1948, don Giovanni Rossi, superiore della Compagnia di San Paolo, dopo una sua visita a Forlì raccontava: “Trovai radunato nella cappella della casa delle associazioni cattoliche un numeroso gruppo di uomini e di giovani per un giorno di ritiro. Un uditorio entusiasmante, non avrei finito più di parlare. Correndo per tutta l’Italia raramente trovai un gruppo di giovani e di uomini così arditamente fieri e generosi. Viva Forlì! Li assiste il canonico Giuseppe Prati, un’anima ardente di amore per Gesù Cristo e per il Papa. Dovunque è bella l’anima di Romagna, ma in Forlì quest’anima è proprio di Fuoco”.
“Se la diocesi di Forlì ha avuto il suo settimanale cattolico che tutt’ora rimane in piedi dopo l’antico Lavoro d’Oggi lo deve a Giuseppe Prati. Io so per esperienza che cosa voglia dire tenere in piedi un settimanale in casa nostra”. E’ ancora mons. Pasini che nell’elogio funebre del suo successore a San Mercuriale, l’11 novembre 1952, gli riconosce questo primato. Parole tanto più significative poiché vengono da colui che aveva fondato e diretto in precedenza un giornale in diocesi, Il Lavoro d’Oggi che aveva cessato le pubblicazioni nel 1908. Don Pippo che aveva avuto una precedente esperienza giornalistica con il giornalino oratoriano La face, edito negli anni della sua presenza ai Cappuccinini, nel 1919 fondò il Momento che non fu mai giornale della diocesi, fino a quando da essa non è stato rilevato nel gennaio 2011. Il primo numero uscì con la data 1-5 gennaio 1919, nel formato 50x35, quattro pagine a quattro colonne, stampato dalla tipografia Valbonesi e si presentò con questo programma: “Sono la libertà e la giustizia il nostro desiderio, la nostra aspirazione. Cattolici dunque e per questo italiani, non imperialisti; democratici, non rivoluzionari; ubbidienti, non venduti; rispettosi non schiavi; liberi, non ribelli”. Pochi giorni dopo, il 18 gennaio, esce l’appello di don Sturzo “ai liberi e ai forti” che segna la nascita del Partito popolare e il giornale si schiera apertamente in questa nuova fase della presenza dei cattolici.
Don Pippo diresse il giornale, tra alterne vicende e con alcuni periodi di interruzione, fino al febbraio del 1952, pochi mesi prima della sua morte, senza farsi condizionare né dalla precarietà dei mezzi, né dalle incomprensioni che provenivano anche da alcuni ambienti cattolici, né degli avversari anticlericali, che avevano augurato vita breve al neonato settimanale. Quando il nuovo vescovo, mons. Giuseppe Rolla, decise dapprima di fare un unico giornale con le diocesi di Bertinoro e di Sarsina e poi nel 1936 di chiuderlo don Pippo manifesterà la sua perplessità e anche la sua contrarietà per le soluzioni avanzate facendo presente che le difficoltà non dipendevano da carenze organizzative, ma dallo scarso interesse e dalla debolezza dell’impegno culturale dei cattolici: “Il problema ha proporzioni più vaste e noi lo prospettiamo perché è problema urgente, di apostolato cattolico, di difesa e di diffusione della verità morale e religiosa per la quale dobbiamo essere disposti a dare anche la vita”. Il Momento uscì fino al 1939 come pagina dell’Osservatore Romano poi fu sospeso. Dopo il periodo di interruzione, ritornando alla guida del giornale nel 1946 don Pippo dichiara ancora i suoi scopi e rivendica la sua libertà: “Al di fuori e al di sopra delle competizioni e dei partiti politici, ne seguiremo le vicende e i svolgimenti, osservatori sereni, vagliandoli a quei giusti criteri di cui abbiamo nella nostra fede la indefettibile scorta. Forse ci capiterà, come del resto in passato, di non essere sempre graditi e se nei precedenti anni della nostra vita giornalistica non sfuggimmo limitazioni, ammonizioni e sequestri non ci faremo meraviglia, se per la verità, per il bene della Nazione, per la Chiesa, per Cristo avremo qualche cosa da patire. D’altra parte, questa nostra spirituale e materiale indipendenza, per cui mai siamo stati agganciati ad alcuna greppia, né abbiamo goduto di facili ed abbondanti propine, è la nostra più vera gloria e la garanzia per chi legge della nostra sincerità”.
Tante volte, dalle colonne de il Momento don Pippo ha spiegato, agli amici e agli avversari il valore culturale del giornale: “La beneficenza non si deve limitare - scrive ad esempio nel 1947 - a qualche istituzione caritativa o a qualche manifestazione grandiosa, magari di religione o di pietà. Se è vero che non basta il pane per la vita dell’uomo si deve sentire il dovere di cooperare e che nel modo più largo sia diffusa la verità e sia combattuto l’errore con le stesse armi con cui lo si difende. E se non è sembrata eresia la frase “una chiesa in meno e un giornale in più” chi può deve orientare anche in questo campo la sua generosità”.
Il giornale fu palestra e trampolino per i suoi giovani come Diego Fabbri, Gino Mattarelli, Francesco Ricci. “Ero ancora un ragazzo inesperto e pieno di me stesso - scrive don Francesco Ricci nel 1952 in occasione della morte del suo maestro - quando cominciai a scrivere sulle colonne del “suo” Momento. Fu così che appresi come don Pippo fosse anche un modello di giornalismo. Egli che sapeva scrivere bene, sapeva anche il segreto perché il giornale parlasse al cuore degli amici e degli avversari. Il suo cuore di sacerdote e di uomo sentì in tutta la sua gravità la responsabilità apostolica del giornalismo”.
Nell’ottobre del 1928 don Pippo lasciò il San Luigi e fu nominato direttore spirituale in seminario dove rimase fino al 1936. Lasciò in quegli anni una profondissima traccia nella vita di tanti futuri sacerdoti, entrati anch’essi nella schiera dei suoi “burdel”. Essere stati in seminario al tempo di don Pippo era motivo di vanto e i preti che lo avevano avuto come padre spirituale lo raccontavano, anche dopo molti anni, con commozione ed orgoglio. Don Pippo per i suoi chierici, prima seminaristi e poi preti, era insieme confessore, confidente, consigliere, padre autorevole, punto di riferimento, di collegamento e di vera comunione sacerdotale. Nel Natale del 1936 don Pippo si commiata dai seminaristi con una lunga e bellissima lettera dove afferma tra l’altro: “Miei carissimi figlioli in Cristo, nella imminenza di prendere possesso della parrocchia di Santa Lucia, alla quale la volontà del Vescovo mi ha chiamato, abbiamo sentito voi ed io quanto fosse forte il legame che tra noi si è andato stringendo, ogni giorno di più, in questi più che otto anni della mia permanenza in seminario. Non c’era mistero tra noi perché voi mi avete concessa tutta la vostra confidenza e avete sentito che nel mio cuore potevate versare tutte le impressioni del vostro, fossero lieti o tristi, sicuri che chi aveva fatto la vostra formazione e la vostra vita primo pensiero della sua mente e prima ansia del suo cuore, vi avrebbe completamente compresi. Oggi i legami ufficialmente si mutano e nel saluto vorrei dirvi tante cose. Quasi sintesi delle innumerevoli cose che ci dicevamo ogni giorno quando con Gesù nel cuore ci parlavamo delle cose di Dio, dei doveri della vostra vita, delle nostre sublimi aspirazioni dell’apostolato, del desiderio di una santità che non sappiamo raggiungere, non perché il Signore non ci abbia chiamati a questa perfezione, ma perché non usiamo dei mezzi che egli ha messo in nostro potere”. Quel legame infatti continuò anche dopo: già parroco, durante l’estate continuava a recarsi a Meldola, alla villa estiva del seminario, per confessare e al momento dell’ordinazione non mancava mai di far giungere ai sacerdoti novelli il suo augurio personale e un regalo. Fino alla sua morte, il lunedì e il venerdì, giorni di mercato, la sua sacrestia, prima a Santa Lucia e poi a San Mercuriale, era affollata di sacerdoti che venivano a cercarlo per parlare e confessarsi. Nel 1942 i preti giovani chiedono di incontrarsi con lui mensilmente “per parlare un po’ di vita spirituale e trovare uno scambievole aiuto per tante cose” come annota don Pippo nel diario parrocchiale e nel luglio del 1943 precisa che questi incontri sono diventati “quasi un corso di cultura sociale in rapporto al Vangelo”. E il giorno del suo funerale saranno i preti giovani i primi a portare a spalla il suo feretro attraverso piazza Saffi gremita di forlivesi.
Don Pippo aveva manifestato il suo desiderio di diventare parroco già nel 1930 proponendosi per quella della SS. Trinità, che era vacante. Ma il vescovo, mons. Raimondo Jaffei, non volle sentire ragioni chiedendogli di rimanere in seminario.
La nomina arrivò nel 1936 quando don Pippo divenne parroco di Santa Lucia e nel 1944, quando fu trasferito a San Mercuriale, negli ultimi durissimi mesi della II guerra mondiale. Visse anche la sua missione di parroco con dedizione assoluta e l'opera che svolse in particolare nella chiesa simbolo di Forlì gli valse il titolo di “parroco della città”. Persone di ogni categoria accorrevano per ascoltare le sue omelie e lo cercavano per qualsiasi bisogno sapendo di trovarlo, sempre lì, presente.
Presente non solo perché disponibile ad ascoltare e ad aiutare, ma perché entrava in merito e si calava dentro le questioni, personali e pubbliche, dalle quali spesso traeva argomenti per i suoi editoriali sul Momento. Fosse la rivolta delle donne che al mercato avevano protestato per l’aumento dei prezzi nel 1919 o l’assalto dei socialisti al circolo cattolico di Magliano nel 1920, il “veglionissimo delle Viole” che l’ultimo giorno di carnevale del 1921 aveva visto la presenza inopportuna di esponenti di spicco del mondo cattolico o, nello stesso anno, l’inaugurazione del monumento ad Aurelio Saffi che prese il posto della colonna della Madonna del Fuoco demolita nel 1909. Già nel 1946 si trovò ad affrontare un problema ancor oggi irrisolto e scrisse al questore in merito alla sicurezza nel chiostro di San Mercuriale. E’ un interlocutore tenace per l’Amministrazione comunale alla quale fa presente contraddizioni e inadempienze: “Mi rallegro coi comunisti - scrive ad esempio nel 1948 al termine della festa dell’Unità - perché han saputo far servire un po’ tutti ai loro intenti. Dico quel che ho sentito dire. A cominciare dai giardini pubblici requisiti per una decina e più di giorni (lo capisco tanto in questa stagione i bambini sono quasi tutte alle colonie e poi, sono proprio dei giardini?). Vi hanno potuto fare innalzare le colonne da tanto tempo atterrate, vi hanno fatto ingrandire la pista per il ballo e questo a spese del Comune e se ne sono serviti gratis mentre quando Buffalo Bill o il Circo Amar occupano il suolo pubblico ne pagano il posteggio”.
Il 20 aprile 1950, dopo le celebrazioni conclusive della Peregrinatio Mariae a cui parteciparono 50 mila persone e in cui erano assenti i rappresentanti del Comune di Forlì il Momento pubblica un piccolo elzeviro: “Mese d’aprile mese dei fiori. Anche l’Amministrazione comunale di offrire ha voluto offrire il suo omaggio alla Madonna. E, a differenza di tutte le autorità, lo ha fatto astenendosi dal partecipare alla solenne processione di domenica scorsa. Pensiero delicato del resto. Non è essa l’espressione del popolo? Da vera rappresentanza democratica ha dunque creduto bene di non intervenire, quando tutta la cittadinanza si era presentata benissimo da se stessa. Il che mostra come i rappresentanti del popolo sanno stare benissimo assenti dal popolo, in una grande manifestazione di popolo”.
Dal giorno dell’ingresso a Santa Lucia tenne un diario, una cronaca parrocchiale, 181 pagine dattiloscritte, iniziate il 26 dicembre 1936 e concluse il 19 maggio 1944, due mesi dopo l’ingresso a San Mercuriale. Giorno per giorno, in poche parole, vengono riportati i fatti più rilevanti, gli incontri, le soddisfazioni e le delusioni della vita sacerdotale e soprattutto lo sguardo di don Pippo sulle persone e sugli avvenimenti. Alla fine del 1943 si fanno più frequenti nel diario i riferimenti alla situazione bellica. Don Pippo, presente come sempre, incoraggia e dà speranza e, dopo il bombardamento del 25 agosto 1944, fu tra i primi a soccorrere i feriti e passò lunghe ore, anche nei giorni seguenti, raccogliendo in piazza Saffi, in chiesa, sui muri, resti di carne umana, li mise in una cassettina e li portò al cimitero. La voce popolare ha sempre attribuito a lui anche il salvataggio del campanile di San Mercuriale dove non esplosero le mine che erano state collocate.
Per questo il giorno della liberazione di Forlì, il 9 novembre 1944, fin dal primo mattino, tante persone accorsero nella chiesa di piazza Saffi chiamandolo ad alta voce, lo portarono fuori dalla chiesa in trionfo, fu baciato e abbracciato dai forlivesi che pochi giorni dopo iniziarono la prima riunione del Comitato di liberazione gridando “viva don Pippo!!!”.
Alcuni amici pubblicarono nel Momento del 5 luglio 1947, all’insaputa del direttore, l’invito a partecipare alla sua prima messa pontificale dopo la nomina a monsignore: “L’intera cittadinanza - così si leggeva nell’invito - vuole rendere il suo tributo di omaggio al popolare don Pippo che sempre ha apprezzato ed amato come pochi altri. Chi non conosce don Pippo a Forlì? Tesserne gli elogi è impresa troppo ardua, perché inferiori sempre alla stima e all’affetto che tutti nutrono per lui”.
Nel maggio del 1929 vi furono aspre discussioni parlamentari per la ratifica dei Patti Lateranensi. Don Pippo, come sempre sul pezzo, ne prende spunto per ribadire che il cattolico non è cittadino di serie “b”: “Sembra che quando si parla dei cattolici si pensi ad una categoria di cittadini ammessi, se non proprio tollerati, mentre essi sono solo dei cittadini come tutti gli altri, ai quali si riconoscono dei diritti e non una sottospecie a cui si accordano dei favori. Allora perché quando si parla dei cattolici se ne parla come di una corrente e di un gruppo dal quale restano esclusi, senza offenderli, numerosissimi cittadini italiani? Si vuole parlare dei cattolici militanti? Ma chi sono questi cattolici militanti se non coloro che intendono ispirare alla fede, alla dottrina cattolica, ai comandamenti e agli insegnamenti della Chiesa tutte le loro azioni, tutta la loro vita pubblica e politica?”.
Dà voce al magistero di papa Pio XI che rivendica la libertà della Chiesa e, per queste prese di posizione, sempre nel 1929, un numero del Momento sarà sottoposto a sequestro. Ciò che gli interessa è ribadire la verità e richiamare alla responsabilità della testimonianza. Il 28 maggio 1931 Mussolini ordinò ai Prefetti la chiusura dei circoli giovanili cattolici e in quello stesso giorno i fascisti disturbarono pesantemente la processione della Madonna del Voto al termine della quale tentarono anche di occupare la Cattedrale, fermati dall’energico don Giulianini che si fece largo brandendo un messale. “Sento che guardandoci intorno - scrive don Pippo nell’ottobre di quell’anno - i credenti hanno in sé troppo di mondano, troppo languore di fede, troppo ardore di egoismo, poca fiamma di carità, poca rigidezza di parola, di pensiero, di tatto, di opera, poco slancio di apostolato, cosicché all’opera nefasta dei nemici di Cristo non si contrappone altra opera energica, né con la luce dell’esempio si trascina alla verità chi la verità non conosce. Ho pensato anche a voi amici, a voi dell’Azione cattolica forlivese, mezzo stanchi, mezzo fiacchi, mezzo dispersi, quando si ha campo immenso di lavoro da compiere perché Cristo regni”.
Anche quando cambia il colore del potere non viene meno il coraggio di don Pippo.
Il 31 marzo 1946 si tengono le elezioni amministrative, vinte da socialisti e comunisti. Per la prima volta sono entrati in Consiglio comunale sei democristiani, cinque dei quali venivano dalla scuola di don Pippo ed erano stati con lui membri dei circoli giovanili cattolici. Dopo le elezioni una mano misteriosa issa la bandiera rossa sul campanile di San Mercuriale e don Pippo, più che scandalizzarsi del fatto, dà un lucido giudizio sul risultato elettorale: “Ci sembra opportuno rivolgerci a quelli che si dicono cristiani e cattolici e lo sono solo o dormienti o incoscienti. Per troppi il cristianesimo è solo un complesso di riti e di pratiche da farsi, oppure di verità che riguardano solo l’intelligenza. E’ un diminuire il cristianesimo che deve pervadere invece tutta la vita e che non può essere escluso da alcun aspetto della vita stessa. Il cristiano non si taglia a fette. Chi è deve essere integralmente. Ecco perché si è giocato sull’equivoco; ecco perché è stato possibile che persone, praticanti magari ogni giorno atti di squisita religione, abbiano dato il loro voto a chi non può per principio garantire lo sviluppo dei principi cristiani e fa professione almeno di laicismo se non di anticlericalismo. Per noi è la stessa cosa. Il cristianesimo non si contenta di esser rispettato e tanto meno tollerato: quando lo si esclude è come se lo si combatte. Poi si è sentito il peso e la pena di una bandiera! Allora meno di inerzia, di incoscienza e di vigliaccheria”. E nel 1949 ribadisce: “Ora di fronte alla sempre pronta intesa delle forze del male è possibile che vi siano dei credenti, fedeli frequentatori di pratiche devote, che si credono a posto con le loro coscienze solo perché non fanno del male o compiono qualche opera buona, ma si sottraggono alla collaborazione così urgente alle molteplici forme di apostolato che gli immensi bisogni spirituali e materiali del mondo circostante richiedono?”.
Don Pippo si interessava a tutto, sentiva ogni ambiente come suo campo di lavoro e lo si trovava a lottare lì dove pulsava la vita della persona e della città Per lui la questione sociale non si risolveva ribadendo i principi, ma dando voce e forma alla presenza dei cattolici. Il 15 maggio 1921, 30° anniversario della enciclica Rerum Novarum, si svolgono le elezioni politiche che videro l’aumento di consenso dei Popolari e a Forlì l’elezione a deputato di Giovanni Braschi. Don Pippo scrisse il giorno prima un editoriale in cui affermava: “Domandiamo agli amici tutti, anzi ai cattolici tutti, di ricordarsi che la migliore commemorazione del documento che destò tante energie di organizzazione nel campo cattolico è questa: fare largamente riuscire nella presente tornata elettorale gli uomini che quelle energie organizzatrici meglio rappresentano, che quel documento papale meglio mostrano di avere appreso”. E la festa per la vittoria elettorale quella volta si svolse in “casa” di don Pippo, al Circolo Melozzo del San Luigi.
Don Pippo non si tira indietro anche quando gli attacchi si fanno personali e deve confessare “sono stato messo al muro”. Nel Momento del 2 novembre 1946 don Antonio Calandrini, rispose ad un manifesto affisso dai comunisti nell’atrio del Municipio, giudicandone “scemo” il contenuto, precisando che la Romagna non era la Panbeozia e non credeva alle bugie dei comunisti e definendo gli autori “comun-fascisti”. Nell’editoriale della settimana seguente, intitolato appunto “Sono stato messo al muro” don Pippo, rispondendo a chi gli aveva fatto notare che quello usato sul suo giornale non era un linguaggio da prete, affermava, rincarando la dose: “Sì e nominativamente sono stato messo al muro perché, mi si dice, nella polemica sono stati usati epiteti non garbati…Quanto poi agli aggettivi usati non si adontino del nome comun-fascisti, giacché se è mutata la casacca, non è cambiato lo spirito”.
Ma non era la vis polemica che faceva parlare don Pippo quanto piuttosto l’amore alla verità che lo rendeva libero di dirla. A tutti. Anche se si trattava del vescovo, mons. Rolla, che, come raccontava mons. Scaccini, durante i bombardamenti della città nel 1944, aveva deciso di lasciare Forlì per rifugiarsi nella villa del seminario a Meldola. Don Pippo non esitò a farsi avanti per fargli presente che in quel momento il pastore non doveva fuggire, ma stare in mezzo al suo popolo. Mons. Rolla lo ascoltò e rimase a Forlì.
Diego Fabbri, che all’abate di San Mercuriale si era ispirato per alcuni dei personaggi dei suoi drammi teatrali, affermò nel 1962: “Don Pippo ci proteggeva, ma non ci sottraeva ai rischi della lotta, ci educava ad un comportamento virile: lottare quando era necessario, anche a costo di patire offesa fisica”.
E don Francesco Ricci aggiungeva nel 1972: “Uomo di carne e uomo di fede: questo fu don Pippo. Questo è il cristiano. Dio solo sa quante lotte un uomo debba condurre per stare dentro la carne con tutta la fede e dentro la fede con tutta la carne. I più sono quelli che stanno dentro la carne senza la fede e sono gli uomini carnali e quelli che stanno dentro la fede senza la carne e sono gli spirituali. Gli uomini veri, i cristiani veri, sono quelli che, crocifisse le loro passioni, sperimentano nella loro carne l’alba della resurrezione, nella novità della loro vita cambiata dalla presenza di Cristo e così aperta a una nuova intelligenza e a una nuova azione”.
La sera del 7 novembre 1952 don Pippo si mise a letto colto da malore e morì la mattina del 9. La notizia fece subito il giro della città e già il giorno stesso, poi il 10 e l'11, accorsero migliaia di persone per rendere omaggio al sacerdote e partecipare ai solenni funerali nella basilica di San Mercuriale. “Mai forse si era vista nella nostra città - raccontava mons. Scaccini - una manifestazione così imponente, in cui persone di diverse condizioni sociali, di contrarie idee politiche, non tutte certo della stessa fede religiosa, si sono accomunate nell’onorare un sacerdote che ha vissuto solo per la carità, il sacrificio, la povertà. Il trionfo (è la parola esatta) al quale abbiamo assistito ha dimostrato la verità di quanto mi è stato detto da una persona in quei giorni che don Pippo aveva nel cuore un posto per tutti e un posto nel cuore di tutti”.
Durante i funerali in San Mercuriale mons. Adamo Pasini lesse il testamento di don Pippo che in data 26 agosto 1949 scriveva:
“Ho poco testamento da fare: possiedo niente e non posso pensare a distribuire.
Esprimo pertanto qui i miei sentimenti:
1° Ringrazio il Signore per la immensità dei benefici che mi ha fatti. Grazie e grazie dal principio della mia vita fino alla fine.
Grazie alla Santa Chiesa che mi ha tenuto per suo sacerdote e mi ha dato di svolgere il santo ministero in tanti campi. Grazie a tutti i buoni del loro affetto e della loro fiducia. Grazie ai parrocchiani che mi sono stati sempre larghi di benevolenza sincera. Grazie a tutti i confratelli che mi hanno assistito e sorretto.
2° Pentimento per tutte le mie infedeltà e colpe gravissime, in riparazione delle quali, accetto la morte come e quando piacerà al Signore di mandarmi. Del male che ho fatto, e solo io ne so la entità, domando perdono al Signore, ma domando perdono a tutti che possono aver sentito danno spirituale: a coloro ai quali sono stato occasione di colpa, a coloro che dovevo meglio dirigere; a coloro ai quali dovevo meglio insegnare, a tutti che dovevano vedere in me il sacerdote di Cristo e hanno invece veduto l’uomo con tutte le sue miserie. Perdono se qualcuno mi avesse offeso, ma non so di avere ricevuto torti o disgusti dei quali conservare risentimento! Abbraccio tutti nel vincolo di Cristo e domando che tutti preghino per ottenermi la misericordia di Dio.
3° Ho avuto sempre tutta la fede, mi sono sempre tenuto unito ai miei superiori: anche in morte voglio ripetere il mio sincero credo e il mio atto di ubbidienza e di fedeltà.
4° Attualmente non so se possa disporre di alcunché, avendo molti debiti che voglio siano soddisfatti al più presto con i crediti, se ce ne sono. Se qualcosa resta e se premuoio alle mie sorelle, avranno esse la miseria che resta: non hanno un soldo, sono vecchie, non avranno una casa, dovrò raccomandarle alla beneficenza dei buoni. Se c’è qualche cosa vorrei la celebrazione di cento messe, sia come soddisfazione di messe che mi siano sfuggite o dimenticate, sia in riparazione delle mal celebrate, sia in mio suffragio e in suffragio dei miei. Per il resto, se sono sopravvissuto alle mie sorelle, non ci sono obblighi ad alcuno: qualche ricordo a mia nipote e ai suoi bambini e poco resterà per la parrocchia, per le associazioni cattoliche e per i poveri.
5° Mi preme notare: a) semplice cassa di legno, non zinco, in piena terra come tutti i miei; b) possibilmente il suono delle campane come si deve, il segno del transito e per il trasporto al cimitero; c) si potrà dire la messa funebre del Perosi? Farò a meno anche di quella se è un lusso e una spesa. Non fiori, non discorsi: piuttosto preghiere e perdono a tutti.
E mi perdoni il Signore, perché ho solo bisogno del suo perdono. Potevo farmi santo e non l’ho fatto e mi accuso così come un colpevole. Pregate per me.
Miserere mei, Deus, miserere mei”.
La straordinaria partecipazione popolare si ripeté 5 anni dopo, il 9 novembre 1957, quando la salma fu traslata dal cimitero monumentale a San Mercuriale per essere tumulata nella cappella dei Ferri.
Il fondatore del Momento è stato commemorato più volte anche dai suoi successori che ne hanno raccolto e continuato la testimonianza nel mondo della cultura e della comunicazione. Don Mario Vasumi, che nel 1952 successe a don Pippo alla direzione del giornale, ne ricordò l’impegno giornalistico durante la tavola rotonda che si svolse il 13 novembre 1977 in occasione del 25° della morte: “Don Pippo volle esser giornalista, volle che i cattolici forlivesi avessero il loro giornale, volle, attraverso il giornale stimolare ed orientare l’attività anche politica dei cattolici. E fino alla fine rimase inalterata, ostinata, la sua vocazione, la sua passione giornalistica. I suoi articoli erano brevi, chiari, vivaci, erano solidi ed esaurienti. Don Pippo non faceva sfoggio di originalità, ma nulla gli sfuggiva che fosse essenziale alla trattazione del tema, segno questo di intelligenza ampia e disciplinata; sapeva approdare a considerazioni elevate che armonizzavano, nella visione cristiana, tutti gli aspetti della vita. E la pagina si animava al palpito del suo grande cuore, così capace fino all’ultimo di entusiasmo per il bene, così traboccante, e più negli ultimi anni, di compassione per coloro che soffrono il male, per coloro stessi che fanno il male. Quando si parlava del giornale si animava, veramente si appassionava alla discussione”.
Don Francesco Ricci, che non fu mai direttore ma salvò il Momento quando rischiava la chiusura e lo aprì all'impegno dei laici, nel 1989 affermava inoltre: “Don Pippo ha significato per Forlì qualcosa che non dovrebbe essere custodito nell’archivio delle memorie storiche, ma fatto rivivere secondo la testimonianza che quest’uomo ha dato e anche da coloro che lo hanno avuto come guida, come maestro, come padre e che oggi sono come immemori di quello che hanno vissuto e perciò incapaci di trasmetterlo ai loro figli. In particolare vorrei sottolineare questo aspetto della santità che si riscontra puntualmente nella vita di don Pippo che è l’unità della persona attorno al nucleo centrale cioè la fede e l’amore per Gesù Cristo, l’unità della vita, l’unità del cuore e delle opere in Cristo”.
Riccardo Lanzoni, che prese il posto di don Vasumi alla guida de il Momento, era direttore nel 1982 quando si celebrò il 30° anniversario della morte di don Pippo. Sui numeri del 6 novembre e 20 novembre 1982 due editoriali ricordano l’anniversario. Nel primo dal titolo “Don Pippo un segno per tutti” si afferma che “don Pippo è uno di quei personaggi che lasciano il segno negli uomini e nel cose. E’ ora di ricominciare ad imparare da quel segno. Per il bene di tutta la città”. L’editoriale del numero seguente citava il manifesto dell’Opera don Pippo per l’anniversario: “Trent’anni fa lasciava questa nostra vita e questa città un uomo il cui ricordo non si è spento nella memoria di coloro che lo incontrarono. In lui avevano infatti incontrato una particolare rivelazione della bellezza della verità. Conobbero un uomo vero che i credenti chiamavano un santo e tutti un giusto. La sua esistenza fu come un ideale e una proposta a tutti, in particolare ai giovani. I giovani furono la sua predilezione. Che anche oggi essi possano incontrare e conoscere il fascino della vita nella verità. Il manifesto, continuava l’editoriale, ci aiuta cogliere la lezione di quell’uomo e di tutti gli uomini che, ieri ed oggi, sono come lui, maestri”.
Alessandro Rondoni, direttore dal 1989 al 2009, nel numero speciale del Momento del 5 novembre 2002, in occasione del 50° anniversario della morte del fondatore del giornale affermava che: “raccogliere il testimone degli ideali che animarono don Pippo vuol dire proporsi nei tempi di oggi, all’inizio del nuovo millennio, in una rinnovata sfida culturale ed editoriale. Don Pippo è nel cuore dei forlivesi, dopo cinquant’anni segna indelebilmente la storia della nostra Chiesa e della nostra città. E’ un po’ come il campanile di San Mercuriale, qualcosa che tutti sentono proprio. Ci lamentiamo spesso che mancano maestri, riferimenti sicuri, valori certi, ma non è vero. Don Pippo e tanti sacerdoti, con lui e come lui, hanno operato e operano fra la nostra gente e nella nostra città. Basta riconoscerli e andare loro dietro. Anche la piazzetta a lui dedicata l’ha inserito nel centro della città di Forlì. I “burdèl” di allora cominciano ad invecchiare, alcuni testimoni come don Fusconi, don Scaccini, don Ricci e tanti altri che hanno fatto un secolo di fede a Forlì ci hanno già lasciato, ma il profumo di quella “santità” rimane una chiara impronta della coscienza del nostro popolo”.
Don Pippo è stato ricordato più volte negli anniversari della sua morte. Sono stati pubblicati articoli e libri che contengono anche le testimonianze che i suoi “burdel” hanno reso in quei momenti.
Nel 1992, in occasione del 40° anniversario della morte, la diocesi commissionò il documentario “Don Pippo un prete e la sua città” e il 17 dicembre 1994 fu intitolata al sacerdote la piazzetta accanto alla basilica di San Mercuriale per iniziativa dell’allora direttore de il Momento, Alessandro Rondoni e a questo scopo furono raccolte 7023 firme.
E nel 2012 compie 60 anni di vita l’Opera don Pippo fondata da Elisabetta Piolanti, mamma Bettina, che nel 1950 si era trasferita con il marito, Gaspare Maiolani da Rocca San Casciano a Forlì, nella zona di Bussecchio dove iniziò a collaborare al servizio di presenza che il vescovo mons. Paolo Babini aveva voluto nel villaggio Gamberoni, la “Baia del Re”. Mamma Bettina raccontava di come era nata l’idea di un servizio più duraturo e di averne parlato a don Pippo chiedendo consiglio. Andò da lui anche la mattina dell’8 novembre 1952 con il marito e don Pippo disse loro: “Pensate ai ragazzi soli, quelli che la società pone ai margini, portateli nella vostra casa, avviateli al lavoro. Quello che non faccio sulla terra lo farò dal cielo”. Si aprì così la sede in via Cerchia prima come scuola professionale femminile e dal 1960 come casa famiglia per ragazzi disabili. Nel 1962 l'Opera fu intitolata a don Pippo, nel 1971 venne riconosciuta come Fondazione e nel 1999 diventò onlus. A mamma Bettina, morta nel 1990, è intitolata la casa di accoglienza dell’Opera che dal 2005 ospita anche il centro diurno “Luigi Lago”. Nel 2010 è stato inaugurato il nuovo fabbricato polifunzionale con i nuovi laboratori, il centro diurno e i mini appartamenti è in programma la ristrutturazione del fabbricato già esistente che renderà possibile il miglioramento dei servizi del centro residenziale e l’apertura di un gruppo appartamento.
Testi di don Pippo
Oltre alla consultazione delle annate de il Momento dal 1919 al 1952 sono da segnalare Don Pippo gli scritti (1913-1952) a cura di Gian Michele Fusconi, edizioni Il Campanile, 1958; Giovinezza cristiana testo di don Pippo dell'11 novembre 1914 dedicato ai giovani dei Cappuccini di cui è stata curata la ristampa nel 1977 in occasione del 75° dell'oratorio dei Cappuccinini.
Testi su don Pippo
Don Pippo, di Dino Mariani, Tip. Raffelli, 1957;
Un Santo del popolo, di Franco Zaghini, Centro studi per la storia religiosa forlivese, 2002;
Speciali de il Momento: "Un uomo e la città" n. 45 10 novembre 1962; n.21 4 novembre 1972; n. 6-7, 18 febbraio 1978; "Uomo di Dio", n. 16, 30 ottobre 1962; Diego Fabbri "Don Pippo" discorso commemorativo nel decimo anniversario della morte, Tip. Raffaelli, 1962;
Mons. Giuseppe Prati: aspetti e momenti dell'apostolato di don Pippo a Forlì di Aa.Vv, Libreria Editrice Vaticana, 1977 (nella collana Sguardi sul clero italiano, diretta dal forlivese mons. Antonio Piolanti); Don Pippo: Il Santo del popolo forlivese, Atti della tavola rotonda in occasione del 25° della morte, ed. Il Campanile, 1978:
Articoli e notizie biografiche si trovano in numerose pubblicazioni, nel Dizionario storico del movimento cattolico in Italia edito da Marietti si trova una scheda su don Pippo e di cui parla Gabriella Tronconi Medri nel capitolo dedicato a Forlì di Il partito popolare in Emilia Romagna edito da Cinque Lune. Antonio Mambelli lo presenta in Uomini e famiglie illustri forlivesi e pure lo ricordano i volumi Nè pochi nè timidi di Gioiello, Zambelli e Grifoni, Usfadè di Gioiello e Zambelli e Un dì lontano. Cinquant'anni di vita salesiana a Forlì a cura di Giovani Tassani. Diversi articoli sono dedicati a don Pippo in Arte sacra nella città di don Pippo. Una scheda illustra la sua opera nella parte relativa ai protagonisti in La Chiesa forlivese nel ventesimo secolo. Storia e cronaca a cura di Franco Zaghini che gli dedica un capitolo anche in Liberi per la fede e per l'amore.