Cari fratelli e sorelle, ci sono tre parole che vorrei sottolineare di queste letture di oggi e che trasmettono un forte messaggio di pace. Da sempre.
La prima parola è abba. Non sappiamo se Gesù conoscesse altre lingue, ma di sicuro parlava l’aramaico. Dell’aramaico conserviamo poche parole e una di queste è abba, padre. In realtà, la traduzione corretta è papà. In Romagna si usa dire babbo. Gesù chiama Dio, babbo. Lui ci insegna a dare del tu a Dio. Se babbo significa che ci ama più e meglio di qualsiasi mamma e papà. Siamo figli. E se figli, fratelli, fratelli tutti. Questo è centrale nel messaggio cristiano. Ricordiamo che a quei tempi non si diceva il nome di Jahvè, temendo di offenderlo. E Gesù lo chiama padre. Sappiamo come e quanto in famiglia possano avvenire i conflitti più atroci. Fratelli coltelli, si dice. Ma quella non è la verità della famiglia. È l’alterazione, la contraffazione, il contrario di famiglia. La famiglia umana, quando fa guerra, dimostra di negare l’esistenza di Dio. Uccidere i figli è bestemmiare Dio che è loro padre. È una verità di fede dire che Dio è padre con delle conseguenze sociali. Alla base di qualsiasi discorso sulla pace per un cristiano è la fede in Dio Padre.
La seconda parola è benedire.
Imparare a benedire. È l’invito della prima lettura che mette in bocca a Dio di benedire, di riconoscere cioè il bene. Non solo riconoscerlo, ma anche dirlo.
Sono due passaggi. Ed è necessario riconoscere il bene. Se neghiamo il bene, neghiamo Dio. Perché Dio è amore. E nell’amore si rivela Dio. Aveva colpito tutti il fatto che la prima enciclica di papa Benedetto, quella programmatica, fosse stata dedicata alla carità. E avevano chiesto così a papa Benedetto: “Perché lei, che è un teologo, non fatto subito una enciclica sulla fede?”. La sua risposta: “Perché si va in Paradiso con la carità. E perché Dio è carità”.
Dimentichiamo un episodio che è stato rivoluzionario e mai imitato. Nel 2010, papa Benedetto aderì personalmente alla campagna europea di lotta alla povertà e all’esclusione sociale, visitando di persona la mensa poveri della stazione di Roma. E con lui, contemporaneamente, tutti i vescovi d’Europa, mangiarono ad una mensa Caritas. Un gesto profetico che vale quanto una enciclica. Riconoscere che Dio è amore e dirlo con le parole e i fatti.
La terza parola è poveri.
I pastori, lo sappiamo, erano gli ultimi degli ultimi. Stavano fisicamente ed idealmente nella periferia del convivere di allora. Ebbene, proprio da loro partì la rivelazione. Dopo gli angeli, gli annunciatori del messaggio evangelico della paternità di Dio e della figliolanza di Gesù di Nazaret nato poveramente in una capanna sono stati i pastori.
La pace vera, la rivoluzione d’amore la possono portare solo i poveri. Come diceva Maria nel Magnificat: ha rovesciato i potenti dai troni.
Papa Benedetto si è definito così, affacciandosi alla finestra dopo l’elezione: sono un umile servo della vigna del Signore.
E lo ha dimostrato al momento delle dimissioni che quel pensiero e quelle parole non erano un modo di dire, tanto per atteggiarsi.
Sono gli umili e i poveri che accolgono e annunciano il Vangelo.
E quando ha capito che non ce la faceva, ha lasciato il posto ad un altro. Non si era ritenuto indispensabile, ma uno strumento. Bisogna essere intelligenti per fare questa scelta e pieni di fiducia in Dio e nella Chiesa.
E allora, dopo aver letto e ascoltato il messaggio di papa Francesco durante la marcia, voglio rileggere con voi il penultimo capoverso dell’ultimo messaggio di papa Benedetto pubblicato per la Giornata della pace del 2013. Lì dove si parla di pedagogia della pace. La pace non si inventa, ma è frutto di un cammino lento e perseverante dentro la coscienza di ciascuno di noi: “Emerge, in conclusione, la necessità di proporre e promuovere una pedagogia della pace. Essa richiede una ricca vita interiore, chiari e validi riferimenti morali, atteggiamenti e stili di vita appropriati. Difatti, le opere di pace concorrono a realizzare il bene comune e creano l’interesse per la pace, educando ad essa. Pensieri, parole e gesti di pace creano una mentalità e una cultura della pace, un’atmosfera di rispetto, di onestà e di cordialità. Bisogna, allora, insegnare agli uomini ad amarsi e a educarsi alla pace, e a vivere con benevolenza, più che con semplice tolleranza. Incoraggiamento fondamentale è quello di « dire no alla vendetta, di riconoscere i propri torti, di accettare le scuse senza cercarle, e infine di perdonare », in modo che gli sbagli e le offese possano essere riconosciuti in verità per avanzare insieme verso la riconciliazione. Ciò richiede il diffondersi di una pedagogia del perdono. Il male, infatti, si vince col bene, e la giustizia va ricercata imitando Dio Padre che ama tutti i suoi fi gli (cfr Mt 5,21-48). È un lavoro lento, perché suppone un’evoluzione spirituale, un’educazione ai valori più alti, una visione nuova della storia umana. Occorre rinunciare alla falsa pace che promettono gli idoli di questo mondo e ai pericoli che la accompagnano, a quella falsa pace che rende le coscienze sempre più insensibili, che porta verso il ripiegamento su se stessi, verso un’esistenza atrofizzata vissuta nell’indifferenza. Al contrario, la pedagogia della pace implica azione, compassione, solidarietà, coraggio e perseveranza.”
Cari fratelli e sorelle, grazie per la vostra presenza. Abbiamo bisogno di andare a scuola di pace, per diventare veri costruttori di pace. Quando c’è un conflitto chiediamo giustamente che intanto sia tolta la parola alle armi. Chiediamo una tregua, ma sappiamo che per costruire pace ci vuole molto di più. Molto di più. Per questo siamo qui, per iniziare bene, per dire bene dei progetti di pace, e di questo occorre essere profondamente convinti e coerenti ogni giorno. Il nostro essere insieme, il nostro essere in rete ogni giorno nell’affrontare le emergenze e le necessità dei poveri fa ben sperare. Continuiamo così. Ogni giorno. Buon anno di pace a tutti.