Omelia per la festa di San Francesco 2020

03/10/2020

"Ecco chi nella sua vita riparò il tempio"

Inizia proprio così la prima lettura: probabilmente, a sentir risuonare queste parole, a tutti è venuto in mente il crocifisso di san Damiano, che indicò a san Francesco esplicitamente un senso alla sua vita: “Francesco va’, e ripara la mia chiesa”.

Francesco aveva all’epoca già iniziato un viaggio interiore che lo aveva portato a lasciare la sua vita di prima, si era già spogliato di tutto, riconsegnando i panni a suo padre, davanti al vescovo, rimanendo integralmente nudo e ricominciando così la sua vita. Come nudo era uscito dal ventre di sua madre, così nudo iniziava una nuova vita.

Colpisce molto davvero questo verbo: ripara. È vero, la voce gli aveva indicato di riparare la sua chiesa, ma non si trattava semplicemente della chiesa di san Damiano, ma di tutta la Chiesa.

E riparare la chiesa di Gesù di Nazareth era certamente più difficile che sistemare mattoni e porte di un edificio.

Anche noi, oggi, sentiamo l’urgenza di riparare.

San Francesco ha interiorizzato così tanto questo verbo, che anche la sua tunica, quella tunica a forma di croce, simile alla tunica dei contadini che lavoravano nei campi, una volta all’anno, la faceva riparare. E chi riparava, chi ricuciva la sua tunica? Era santa Chiara, con pazienza, che cuciva e ricuciva la sua tunica. È oramai un dato certo che santa Chiara abbia utilizzato ben 19 pezzi del suo mantello, di un tessuto ancora più grezzo di quello della tunica di san Francesco, per riparagli la veste.

Personalmente trovo che questo sia un segno che racchiude in sé una potenza spirituale ed espressiva notevole ed eloquente. Che comunica una grande comunione spirituale tra Chiara e Francesco. Una comunione e intimità emozionanti.

Una lezione di vita che vale sempre e anche per noi, oggi. Buttare è facile e forse comodo. Riparare è un’arte più difficile ma necessaria, ieri come oggi. Questo vale per le cose, i vestiti, ma anche per gli affetti, le relazioni, gli impegni e le promesse.

Riparare e ricucire. È un messaggio che raccolgo come orientamento per la chiesa, per costruire fraternità e comunione nella chiesa.

Vale per le famiglie, vale per la vita di coppia. Troppo velocemente ci si rassegna di fronte agli strappi o alle lacerazioni, finendo per ritenerle definitive e irreparabili.

È anche un programma politico. Cioè necessario per la nostra vita sociale, imparare o reimparare a ricucire.

Riparare. Con arte e misericordia per il bene comune.

La tunica di Francesco, cucita e ricucita da santa Chiara, è un messaggio potente che vale più di tante parole e regole, bollate o meno.

La seconda parola che vorrei sottolineare è la croce.

“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.”

La tunica è a forma di croce. San Francesco ha ricevuto le stimmate qualche anno prima di morire, come manifestazione impressa persino nella sua carne, la volontà di rassomigliare all’amore della sua vita: il Signore Gesù.

San Francesco, come ci ricordava Dante Alighieri nella sua divina Commedia, è colui è più di ogni altro è stato somigliantissimo a Gesù.

La croce evidenzia e risalta la scelta da parte di Gesù, condivisa da Francesco, di amare fino in fondo Dio e i fratelli. Tutti!

Francesco non solo credeva in Dio, ma amava Dio con tutto se stesso. Era per lui l’unico Padre, il Padre vero. L’unico Padre, come Gesù era l’unico Figlio, nello Spirito di Dio.

Se togliamo la passione di Francesco per Gesù, figlio di Dio, non cogliamo la verità di Francesco. Possiamo magari apprezzare il suo amore per il creato. Ma in questo modo dimenticheremmo che prima del creato, Francesco amava il creatore.

E senza comprendere la passione di Francesco per Gesù, rischiamo di conseguenza di non capire il suo amore per i poveri, perché Francesco vedeva nei poveri il suo amico e fratello Gesù, realmente presente nel povero.

E allo stesso modo non capiamo la volontà di Francesco di vivere in fraternità se non entriamo nella sua fede nel Dio di Gesù Cristo, che amava tutti come suoi figli e fratelli.

Se togliamo Dio a san Francesco, si spegne la sua luce. E, in effetti se ci fermiamo a riflettere, Dio è stato tolto a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo, come fosse superato e inutile in tempi di rivoluzione tecnologica. In verità, le domande profonde non trovano risposte nei mezzi o nella tecnica. Mi auguro che i credenti riescano a comunicare come san Francesco l’indispensabile presenza di Dio amore nella vita degli uomini e delle donne anche in questi tempi.

E, infine, vorrei sottolineare una frase dal vangelo: Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.

Siamo stanchi, stanchi di tante cose. Siamo stanchi che la nostra vita ruoti costantemente attorno alla minaccia di un virus. Viviamo nell’incertezza su quanto tempo ci vuole ancora per uscire da questo incubo. Siamo stanchi e irascibili. Abbiamo paura di soffrire, di ammalarci, di perdere le persone care, abbiamo paura di morire.

In questi mesi, la paura anche di morire ci ha fatto toccare con mano quanto poco siamo capaci di dare un senso alla vita e anche alla morte.

San Francesco, amico e discepolo di Gesù, ha trovato un senso anche di fronte a sorella morte.

Gesù, perfino in questo frangente così pesante, non ci abbandona. La morte non ci separerà dall’amore di Dio. La vittoria di Cristo sulla morte è garanzia anche per noi, che l’ultima parola è l’amore di Dio, un amore eterno.

San Francesco con la sua tunica ci insegna a ricucire le relazioni su questa vita, ma allo stesso tempo ci ricorda che è possibile, nel Signore, ricucire anche la nostra vita, pure quando sarà strappata dalla morte, perché il Dio della vita ha già dimostrato di saper ricucire anche la nostra vita. Per sempre.