UN DIO DI PERIFERIA
È il terzo Natale che vivo qui. Nella periferia della periferia della periferia di San Paolo del Brasile. Per arrivare in centro infatti c’è bisogno di due ore di pullman: due per andare e due per tornare. Pendolo al quale la maggior parte della nostra gente si sottopone quotidianamente: vai, torna, vai, torna.
Arrivi in centro e trovi palazzi di una megalopoli della 9^ economia mondiale e poi, quando di sera torni, ti accolgono di nuovo le casupole costruite una fitta all’altra della periferia dove la maggior parte della gente - soprattutto dopo la pandemia - mangia poco.
Nell’immaginario europeo il Brasile è sinonimo di: samba, allegria, integrazione, fede… e calcio nonostante lo scarso risultato del Mondiale.
Ed invece sotto sotto qualcosa grida e per questo, la notte del 25, dovremmo pregare attorniati dal caos delle moto dei signorotti del quartiere. Sfondano le marmitte e passano tutto il tempo con i loro motori a marcare il territorio quasi a dire: ‘state sotto, qui comandiamo noi!’.
Così Gesù viene ma non si sente.
Loro invece li sentiamo tutti. La gente è stanca di questi atti di forza ma non può dire nulla. Silenzio. Se dici qualcosa finisci male.
E quando hai tra le mani l’eucaristia e senti questo caos assordante ti chiedi che senso abbia tutto.
E poi il cuore torna a quell’altra notte, quella di Betlemme, dove un imperatore strafottente vuole contare i suoi servi e li fa registrare nel luogo di nascita per marcare il suo potere, e quel bambino, circondato da questo ‘rumore’ non trova spazio in casa perché è nato fuori del matrimonio e forse quella famiglia genera qualche sospetto. Figlio di Dio? Mah…
Eppure, dentro tutte queste contraddizioni della periferia ci si accorge che la strategia dell’amore di Dio è incredibile.
Viene come allora, senza fare rumore e senza l’arroganza dei potenti. Viene perché l’amore è silenzioso, umile. Povero.
Viene e resta fuori dalla porta perché la maggior parte non lo riconosce né capisce la sua traiettoria.
Viene come principe della pace, ma senza fare una guerra perché è mite nelle parole e nei gesti.
Viene per dare speranza a chi si sente sempre usato, viene per essere uno di noi dentro le contraddizioni di un Paese in cui l’esclusione razziale uccide come fosse una guerra combattuta senza sosta perché è dentro la cultura, dentro la storia.
Per noi, infatti, c’è la ‘scoperta’ dell’America, ma per chi era qui è stata un’invasione dilaniante che perpetua fino ad oggi lo schema tripartito: padroni, indios e schiavi. Con un dio per uno. Forse anche oggi.
Ed è per questo che Lui nasce in periferia, in silenzio, senza disturbare e chiedere attenzioni.
Fuori dalla porta. Come fa l’amore che sa aspettare… amore.
Buon Natale.
Padre Luca Vitali